Passi tratti da “Cenere di papavero” di Nadia Campanelli edito da Algra Editore

…L'appuntamento era in Piazza Loggia, si sarebbero incontrati nel bar davanti al monumento, il tempo necessario per decidere il percorso, poi un amico li avrebbe accompagnati all'imbocco dell'autostrada. Sull’autobus vuoto si sedette in fondo, sola, vicino al finestrino. Nel blackout dei pensieri scorrevano veloci le immagini della città che sbiadiva nella luce di una sera precoce. Poche fermate e sarebbe arrivata a destinazione.

Il bar, lì a due passi. Era ancora in tempo per cambiare idea. Entrò.

C'era da aspettarselo, lui aveva lo sguardo a filtro flou dell'oblio alcolico. Si sapeva che beveva, era un buon tipo, ma in quanto al vino, non aveva limiti. L'odore di alcool e fumo che si portava addosso a lei non piaceva, le dava la nausea, e anche questo sarebbe stato un boccone amaro da digerire. Non era quello il momento di cambiare idea, che misera figura avrebbe fatto? C'era chi ci credeva in quel viaggio e lei, accidenti, doveva a tutti i costi affrontare quella scomoda avventura. «On the road, on the road, al diavolo i ripensamenti, è tempo di andare».

Guru era il migliore amico di sua sorella e qualche qualità doveva pure averla; lui se ne stava seduto a regalare profezie, per un calice di rosso diventava profeta e molti sballoni credevano veramente alle sue parole. Il santone metropolitano non navigava da solo, al suo seguito c’erano sempre tre o quattro disperati di turno alla ricerca di un miraggio. Odilia dentro di sé sperava fosse arrivato al capolinea e si rifiutò di sedere con quei tre in palla che gli facevano compagnia. Lei aveva fretta, avventurarsi in un autostop al buio non era il massimo delle sue aspirazioni.

«Non bevo niente, grazie, dobbiamo partire. Dai, datti una mossa, vuota il bicchiere e andiamo». Non doveva concedere spazio ai pensieri, il gomitolo dei perché l'aveva confinato in un angolo assopito della mente, non era quello il momento di suonare la sveglia e dipanare la matassa ingarbugliata. «Buttati, tieni gli occhi sempre ben aperti, hai diciotto anni, te la puoi cavare da sola». Quanto era brava a regalarsi conforto nel momento del bisogno. La città, vuota. Dove erano finiti loro? Non c’era nessun amico per un saluto, una stretta di mano, un abbraccio. In quel momento due braccia intorno al corpo l'avrebbero rincuorata.

Un contatto, sì, di un contatto umano aveva bisogno, per quel senso di calore che si sarebbe portata con sé e che l'avrebbe accompagnata per un po' e reso il distacco meno violento e doloroso. Corsaro parcheggiò la macchina a ridosso del marciapiede, abbassò il finestrino e fece un fischio a Guru che stava ancora bevendo. Non si staccava da quel calice di rosso che gli avevano riempito di nuovo. Imbecilli! Lui e il vino si cercavano, si possedevano, mai sazi l’uno dell’altro, si corteggiavano, come l’ape il fiore.

Odilia fece un cenno con la mano a Corsaro, si avviò verso l'uscita con passo sicuro, si girò ancora una volta e a voce alta e decisa disse a quell'altro: «Se non ti dai una mossa, ti mollo qui e parto da sola, ubriaco come sei mi metterai nei casini…». Salì in macchina, sistemò lo zaino e prese posto sul sedile posteriore. Lasciò la portiera aperta.

Guru uscì dal tempio di bacco con piedi striscianti, ciondolava non poco. Aveva con sé solo un sacco a pelo e una borsa di stoffa, se l'era messa a tracolla e a guardarla bene non sembrava contenere un granché. Odilia si suggerì di non immischiarsi del bagaglio altrui. Lei aveva preso tutto quello che poteva servire e ben nascosti, perché aveva promesso di usarli solo nel momento di grave bisogno, teneva piegati dei soldi: seimila lire, quel tanto per pagarsi un pezzo di viaggio di ritorno in treno. L'aveva giurato, Guru non doveva sapere; solo durante il tragitto, se ne fosse valsa la pena, gli avrebbe dichiarato ciò che teneva nel portafoglio, poco più di ventimila lire per comprarsi da mangiare e le sigarette, ma delle altre seimila non avrebbe fatto cenno. Lei le considerava il loro salvavita.

Che storia, tremava solo a pensarci. Avrebbero avuto come letto un sacco a pelo, un prato o una spiaggia sarebbero andati bene per trascorrere le notti. La stagione estiva agli sgoccioli, nel sud dell'Italia avrebbe offerto ancora delle giornate di sole e delle notti asciutte e tiepide; questa certezza la rassicurava un poco, anche se lei, per terra e all’aperto non ci aveva mai dormito.

Una settimana al massimo e poi avrebbero fatto ritorno. Le provviste sarebbero bastate, dovevano bastare a tutti i costi. Corsaro non ci sapeva fare con la frizione e arrivarono singhiozzando all'imbocco dell'autostrada, entrata ovest direzione Bologna. Accostò sulla destra, attento che non ci fossero macchine parcheggiate nello slargo della strada d'accesso. Spento il motore, tolse dalla tasca un pezzo di stagnola, la srotolò con cura e ammirò, estasiato, quei cinque grammi di roba che portava con sé, protetta dall’involucro grigio lucente, come fosse un tesoro.

Odilia la cerimonia del ti scarto, ti ammiro, ti annuso e ti sbriciolo, la conosceva bene, anche se al fumo aveva dato buca da tempo. L'ultima volta che tirò una boccata di uno spinello fu in quella stanza semi buia dalle pareti azzurre con disegnate spirali in movimento virtuale. Non si ricordava nemmeno chi le sedeva vicino, aveva preferito azzerare il ricordo. Serata in nero.

Lì, aveva conosciuto il volto più terribile della paranoia e purtroppo non se l’era dimenticato. Pachistano nero, quello spino di merda l'aveva stordita al punto tale da farle perdere la coscienza del tempo e ciò la spaventò come un incubo nel pieno della notte. Senza dire una parola, col cuore in gola e il tremore della disperazione, si alzò, cercò la porta e fuggì giù per le interminabili scale, angosciata dal terrore di non poter uscire da quello che le appariva come un tunnel nero. La lucidità della mente, lo specchio trasparente in cui la sua realtà si presentava riconoscibile nelle linee ben definite e in chiare lettere, diventarono nel tempo la condizione ideale, la strada da inseguire sul percorso della vita.

La paura del non ritorno, il restare fuori, in una dimensione ovattata, senza spigolature, dove il dolore è un non dolore, dove il riso si distende in un pacato e permanente sorrisooo, le faceva urlare: «No!» Lei voleva soffrire e gioire nell’intensità piena della gioia e del dolore, sentire le unghie graffiare e il tocco leggero e levigato di una carezza. C'era voluto un po' per riprendersi da quella brutta storia. Da allora aveva chiuso col fumo e non le importava il giudizio degli amici che le suggerivano: «Dai provaci ancora, può succedere a tutti di entrare in paranoia».

«No, grazie» e lasciava che lo spinello scivolasse dalle sue mani a quelle di chi le sedeva vicino; guardava senza desiderio chi gustava il tiro e si accontentava di quel profumo dolce di salvia e rosmarino così familiare che, per una strana combinazione della natura, esalava da quella mistura di tabacco e hascisc. Guru teneva gli occhi fissi sullo spinello che prendeva forma nelle mani esperte di Corsaro, non era male, gonfio e lungo quanto bastava per suggellare in una cerimonia propiziatoria l'inizio del viaggio.

Ce n'era giusto bisogno. Guru lo prese tra le dita, arricciò la punta con l’arte di un maestro, accese un fiammifero e la incendiò. Lasciò che la fiamma si esaurisse nel punto in cui il tabacco incominciava a prendere un colore rosso, gironzolò col naso intorno al primo fumo poi chiuse tra le mani il suo trofeo, lo portò alla bocca, allargò in un riccio rotondo le labbra e incominciò ad aspirare profondamente. Si teneva giù nei polmoni il fumo fino al momento in cui lo faceva scappare un colpo di tosse, poi lo passava a Corsaro. Bel tipo quello, guardami e sorridi, lui era uno di quelli che alla prima boccata cambiava espressione, gli cadevano le palpebre e iniziava a ridere di niente, piccole risatine, una dietro l'altra.

Non c’era niente da dire! Rideva ancora, quando Odilia e il suo compagno di viaggio gli lanciarono un saluto e si allontanarono per sistemarsi nella posizione ideale e fare autostop. «Io direi che tocca a te mettere fuori il dito, una ragazza attira di più l'attenzione, io mi metto un po' in disparte così chi si fermerà penserà che sei sola. Se saranno intenzionati a darti un passaggio vedrai che dovranno caricare anche me! Lascia fare, sono un esperto di queste cose, con tua sorella ne abbiamo fatta di strada».

Lo lasciò parlare, una cosa sola doveva chiarire e glielo disse in modo autoritario e preciso: «Per chi ci offrirà i passaggi, noi saremo una coppia di fidanzati, ricordatelo, non voglio aver storie. Cerca di recitare bene la tua parte e stai attento a ciò che dirò, al tono della mia voce e come ti guarderò». Sperò che avesse compreso l’intenzione di quella proposta di accordo, appoggiò lo zaino sull'asfalto, allungò il braccio con il pollice ben alzato e visibile nel chiaroscuro della sera.

Era settembre e l'aria era fresca.