Passi tratti da “Fermami il tempo” di Nadia Campanelli edito da Marco Serra Tarantola.

Fu sul finire dell'estate che mamma, Marco e l'avvocato fecero ritorno in città.
A Mura saremmo tornati insieme per la vendemmia, poi mamma avrebbe dato ordini alle donne di casa di chiudere le camere e di coprire poltrone e divani del salone con larghi teli bianchi di lino. Le coperte leggere di cotone ricamato avrebbero preso aria nelle giornate di sole, prima di essere riposte con i mazzetti di lavanda profumata nell'armadio a muro del corridoio lungo, al piano di sopra. Anche i centri di pizzo erano meticolosamente raccolti, lavati e inamidati. Uno sopra l'altro, avvolti da carta velata, trovavano posto nel cassone dell'anticamera con i copri cuscini di canapa ricamati a punto croce. L'argenteria grande era imballata in carta di giornale e chiusa a chiave nella credenza di noce, tra la cucina e la dispensa.
La povera Cesira, moglie del fittavolo, aveva il suo bel da fare a soddisfare le manie di mamma che voleva tutto in perfetto ordine.
In quelle giornate lei si sentiva veramente la padrona e pretendeva che ogni lavoro domestico fosse eseguito con cura.
Era compito dell'avvocato chiudere con quattro mandate la serratura del portone di ingresso e, come in un'antica cerimonia, lui consegnava il mazzo di chiavi al fattore che si sarebbe impegnato a controllare un giorno alla settimana l'interno del palazzo, per accertarsi che tutto fosse a posto.
Quell'anno, mi ero persa l'andirivieni delle domestiche tra le innumerevoli stanze e pensavo con tristezza all'estate che si stava spegnendo dietro l'immagine di un pallido sole autunnale.

Non ho mai amato l'autunno, pur godendo dei suoi colori caldi e avvolgenti, si impossessava di me un insostenibile senso di malinconia. Mi coglieva ogni sera impreparata, quando il cielo si rabbuiava e la notte si sostituiva frettolosamente alla luce del giorno.
Sin da bambina sentivo questo inesprimibile senso di disagio e all'improvviso scordavo i giochi, gli amici e le persone care che mi vivevano accanto. Calava un muro di nebbia tra me e il mondo e diventavo incapace di vedere. C'ero solo io: io ed il mio malessere.
La gioia che mi spingeva a correre lungo i prati nei pomeriggi d'estate o la bellezza del mare nel quale mi lasciavo cullare, svanivano all'improvviso, cancellate, sconosciute.
L'idea che prima o poi tutto finisce, mi tormentava.
Nella mia vita ho sempre cercato di allontanare i pensieri negativi, mi sono imposta di stare bene e niente e nessuno me lo avrebbe impedito.
Questa fu una promessa alla quale cercai di tenere fede, mi costò fatica, ma in questo modo sono sopravvissuta ai grandi dolori.
L'autunno sembrava cancellare queste mie certezze ed io attendevo con ansia l'inverno che non temeva di mostrare il suo volto.
Ambiguo, l'autunno è ambiguo, ed io non ho mai sopportato l'ambiguità. La luce mi esalta, il buio mi affascina, l'ombra mi spaventa, come l'ignoto che sento avvicinarsi ogni giorno di più, ed io, impotente, non posso sfuggirgli.